Ricordate dove eravate nel 1987? Forse sì, forse no. Ma in quell’anno successe una cosa destinata a cambiare la nostra vita: la temperatura media europea aumentò di 1 °C (il cosidetto ” abrupt climate change”), dando inizio a conseguenze sul clima e ad eventi meteo estremi. In Valpolicella, nonostante l’effetto mitigante del lago di Garda, che dona ai territori limitrofi temperature di giorno più basse e di notte più alte, il cambio climatico è avvenuto portando inverni più caldi, giornate di pioggia intensa (70 mm) pressoché raddoppiate (da 12 tra 1962-1978 a 21 tra 1996-2014), vendemmie sempre più anticipate. Al momento, però, il cambiamento climatico non è stato così catastrofico per l’Amarone, anzi, visto che dal 1997 al 2014 ne è aumentata la vendita del 36 per cento. Secondo Daniele Accordini, enologo di Cantina Valpolicella Negrar: “Da vino prettamente elegante dall’esile struttura, frutto di maturazioni lente, talvolta stentate, è divenuto un vino di maggior spessore e vigoria estrattiva, con un quadro fenolico caratterizzato da tannini più maturi“. Per cui, “la Valpolicella e i suoi principali vitigni autoctoni – Corvina, Corvinone e Rondinella – sono riusciti ad adattarsi molto bene al nuovo clima, trasformando i vini Amarone da stili locali a espressioni territoriali di carattere internazionale”.
La prova del bicchiere. A testimoniarlo, la verticale di annate storiche – 2000, 2003, 2005, 2008 e 2013 – di Amarone della Valpolicella Vigneti di Jago Domìni Veneti, un cru prodotto su terrazzamenti a secco nelle colline della valle di Negrar, vigneto coltivato a pergola veronese su suoli poveri, marnosi, ricchi di scheletro e intercalati da sottili strati di argilla, facili allo sgrondo. Prima informazione fornita ai partecipanti alla degustazione, la più partecipata tra quelle in programma all’evento enologico organizzato lo scorso 18 novembre dalla cantina per confrontarsi con esponenti internazionali del mondo del vino su appassimento e futuro della cooperazione, l’aumento in crescendo del grado Babo, passato da oltre 24° dell’annata 2000 agli oltre 26° dell’annata 2013. Alla beva, quest’ultima è risultata essere la più strutturata, l’annata 2008 severa ed elegante, il millesimo 2005 di grande equilibrio gustativo-olfattivo, l’annata 2003 morbida e calda, mentre l’annata 2000 è risultata essere la più emozionante, straordinariamente giovane e vitale. “Oggi questo stile di maggiore longevità, di più marcata personalità, riconoscibilità e unicità guarda a nuovi e importanti orizzonti. Sono questi gli elementi che il consumatore desidera scoprire nell’Amarone, autentica espressione di una peculiarità territoriale, frutto di tradizioni millenarie, esperienza, conoscenza e competenza. Soprattutto un vino che alla degustazione sappia donare emozioni forti, uniche, riconoscibili e irripetibili“, ha affermato Accordini.
Amarone, morbidezza non vuol dire dolcezza. L’unicità dell’Amarone, in quanto vino secco da uve appassite, secondo il danese Thomas Ilkjaer, esperto di vino ed autore della più importante guida ai vini italiani nei paesi del Nord Europa “dovrebbe essere comunicata meglio da produttori, importatori e media in un mercato globale in cui si affacciano sempre più Paesi vinicoli“. Favorevole all’attuale presenza di tanti stili diversi di vino Amarone, per cui “i consumatori possono trovare oggi più facilmente quello più vicino al proprio gusto“, Ilkjaer ha avvisato del “pericolo” che l’Amarone venga percepito come vino liquoroso o vino dolce, cosa che non è. A questo riguardo, Accordini ha ricordato come non si debbano confondere gli zuccheri residui con la morbidezza conferita dalla glicerina e dall’acido gluconico durante l’appassimento, che è “una sorta di lenta surmaturazione, in cui avvengono reazioni fisiche e chimiche che danno maggiore alcolicità e corposità, quindi capacità al vino di conservarsi nel tempo. Un grande ruolo nel caratterizzare gli aromi dell’Amarone ha anche la muffa nobile, che agisce in modo perfetto in uve come la Corvina e il Corvinone che hanno bacca grossa“. Una tecnica, quella dell’appassimento di Recioto e Amarone che è “la più copiata d’Italia, ma solo a Verona è una tecnica a servizio del vino e non un esercizio di stile“, ha affermato Alessandro Brizi, caporedattore de L’Assaggiatore (Onav), che ha raccontato ai partecipanti i vini serviti nelle diverse masterclass.
Vini dolci, rilancio di là da venire. Dall’appassimento in fruttaio praticato in Valpolicella, nell’open day si è passati a parlare dell’appassimento in vigna praticato da Cristina Geminiani di Fattoria Zerbina (Ravenna). La produttrice, agronoma ed enologa, fin dalla sua entrata nell’azienda di famiglia, nel 1987, si è messa alla prova con l’Albana, vitigno conosciuto più per la sua generosità che per la sua finezza, decidendo di puntare sulla muffa nobile in pianta e sulla vendemmia scalare in stile Sauternes. Una scommessa vinta la sua, visto che lo Scaccomato Romagna Albana passito Docg è il vino di punta che l’ha fatta conoscere, anche se la produzione è di nicchia – 5 mila bottiglie su un totale di 180 mila bottiglie prodotte -, sia per la tecnica impiegata “per gestire uve botritizzate in vigna bisogna essere molto veloci nella raccolta e si è costretti ad una spietata selezione“, sia per il gusto dei consumatori, più orientato alla versione secca di Albana, quadruplicata nelle vendite (da 5 mila bottiglie a 20 mila). Un’altra tipologia di appassimento, su stuoie per 10/15 giorni, è quella effettuata nella denominazione andalusa di Jerez per la produzione di Pedro Ximénez, vino dolce naturale che trova maggior successo di beva e di vendita quando è aggiunto ad alcune versioni dei vini fortificati, come il Cream, la tipologia più importante commercialmente per l’area vinicola spagnola. “I vini di Jerez sono complessi e a volte di non facile approccio, ma la tradizione rimane la nostra parola chiave, il nostro punto di debolezza sono le troppe tipologie esistenti, che creano confusione nei consumatori“, ha dichiarato Carmen Aumesquet, direttrice promozione del Consorzio vini di Jerez, Manzanilla e Brandy de Jerez.
“Sulla tavola degli italiani, 6 bottiglie su 10 provengono da cantine cooperative”. A dirlo, Alessandro Brizi, che ha affermato come “il valore della cooperazione non sia tanto nel produrre merci ma nel preservare anche quel mezzo ettaro di vigneto che altrimenti sarebbe abbandonato“. Una delle differenze emerse nel confronto con Les Vignerons de Tutiac di Bordeaux, una delle più grandi cooperative francesi, frutto anche di fusioni, fondata nel 1974, 700 soci per circa 6 mila ettari di vigneto, 40 milioni di bottiglie prodotte, 8 centri di viinificazione e 2 di imbottigliamento, un giro d’affari di 100 milioni euro, sta proprio negli ettari di vigna posseduti dai conferitori: per Tutiac, circa 20 ha contro i 2,5/3 ha dei soci della cantina cooperativa negrarese. Ad unire le due realtà cooperative vinicole, l’attenzione per il lavoro in vigna, la valorizzazione dei vini in cantina, la ricerca, l’innovazione, la sostenibilità economica, sociale e ambientale. Renzo Bighignoli, presidente di Cantina Valpolicella Negrar, ha applaudito alla bontà del confronto di esperienze, “ci è stato utile nel capire l’importanza di esaltare le singole specificità territoriali, ricercando nella tradizione e nell’originalità delle proprie produzioni quel tocco di personalità inconfondibile che permette di vincere la sfida dell’omologazione“. E se la cooperativa bordolese punta sul rosé in un momento di cisi dei vini rossi della denominazione ed apre il primo wine bar nel centro di Bordeaux, la cantina cooperativa negrarese scommette sempre più su se stessa: “Esportiamo in 39 Paesi, non abbiamo nessuna paura a competere sulla qualità con i più importanti brand privati, il cui lavoro di promozione e valorizzazione della denominazione è innegabile, ma il futuro del vino è sempre più nella cooperazione e in aziende agricole di qualità che gestiscono direttamente il vigneto: filiera corta e un buon rapporto qualità/prezzo è ciò che cerca il consumatore“, ha concluso Daniele Accordini.